George Simenon secondo Codignola – Rosita Ferrato, giornalista, scrittrice, fotografa
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George Simenon secondo Codignola

Matteo Codignola, scrittore e traduttore, dagli anni ’90 lavora per Adelphi. Nel volume Il Mediterraneo in barca cura la postfazione “Gli album di Simenon”, in cui si spiega il rapporto fra l’autore belga e la fotografia, l’altra forma d’arte con cui era solito esprimersi. Ne parla con Rosita Ferrato.

Quale era il rapporto di Simenon con la fotografia?

«Molto curioso, come del resto il rapporto che aveva quasi con qualsiasi cosa. Un interesse febbrile in una prima fase, seguito dal suo contrario: un disinteresse improvviso e apparentemente irreversibile».

Nella tua prefazione “Gli album di Simenon” sveli al lettore che Simenon era fotografo non amatoriale già a inizio carriera. Essere fotografo ai tempi di Man Ray e Robert Doisneau non doveva essere semplice…

«A Liegi, mentre i suoi coetanei giocavano a sottomuro (sempre che a Liegi qualcuno giocasse a qualcosa), Simenon era già un cronista di nera per la “Gazette”. E siccome non era uso fare le cose a metà, si presentava sulla scena del crimine con la sua macchina fotografica. Senza limitarsi a scattare: le foto che poi vendeva insieme al pezzo se le sviluppava e stampava da solo. Era piuttosto bravo, e sapeva di esserlo. Aveva un suo occhio, e un suo gusto. Man Ray e Doisneau li ha conosciuti più tardi, a Parigi, e a un certo punto li ha imposti al suo editore – attenzione alla prospettiva, non erano ancora i mostri sacri che veneriamo oggi, piuttosto due ragazzi molto dotati fra gli infiniti altri che giravano in città in quegli anni. Il fatto piuttosto interessante è che, per una lunga fase della sua carriera Simenon, che pure aveva sempre il suo daffare, si sia occupato fino in fondo dei suoi libri, entrando anche in campi nei quali di solito gli autori, per espresso desiderio degli editori, non hanno voce in capitolo. Il disegno delle copertine, ad esempio. Per i Maigret, ad esempio, Simenon pretendeva, contro le convenzioni dell’editoria francese di quegli anni, che in copertina ci fosse sempre e solo una fotografia – e, appunto, sapeva anche di chi. Ora, quando Simenon pretendeva qualcosa, be’…»

Le fotografie erano spesso una sorta di sopralluogo per i futuri romanzi. Sono molto spesso volti, persone: Simenon costruiva anche dei personaggi e delle storie, con questi scatti?

«Nulla di quello che Simenon faceva – viaggiare, o bere un pastis – era a fondo perduto. In un modo o nell’altro tutto quello che vedeva o ascoltava finiva in un romanzo. Nel (poco) tempo fra un libro e l’altro, sì, passava la vita in una specie di sopralluogo permanente. Non che cercasse qualcosa di particolare, ma incamerava in modo quasi automatico scene, personaggi, ambienti, frammenti di conversazione, già sapendo che, prima o poi, li avrebbe usati».

Citando ancora il tuo scritto: “La fotografia era la prosecuzione della scrittura con altri mezzi”.

«Sì – in molte foto, specie quelle dei viaggi successivi alla lunga crociera nel Mediterraneo, il nesso è trasparente. Alcuni soggetti fotografati da Simenon sono poi diventati direttamente personaggi di romanzi. Colpisce, in effetti».

All’inizio di un viaggio, Simenon chiedeva a un caporedattore: “La settimana prossima parto. Le interessano dodici articoli?”. Dev’essere quello che ha fatto prima di partire per la crociera del Mediterraneo – dalle Porquerolles alla Tunisia passando per l’Elba, Messina, Siracusa, Malta, a bordo di una goletta. Gli articoli radunati ne “Il Mediterraneo in barca” sono apparsi per la prima volta sul settimanale “Marianne” tra il giugno e il settembre 1934. Quale era il rapporto fra Simenon e il giornalismo?

«Abbastanza strumentale, come si ricava dalla frase che hai riportato. In quegli anni era comune, anche per scrittori affermati, usare il giornalismo, specie di viaggio, come secondo lavoro. Si metteva in tasca qualcosa, e si raccoglieva materiale. Questo non toglie che Simenon avesse un occhio, e una mano, fuori dal comune. Volendo, sarebbe potuto diventare un fuoriclasse.»

A un certo punto, si legge: “Stanotte, forse, il pescatore di murene farà un bottino miracoloso. Ma non per questo si comprerà un furgoncino, e nemmeno un asino per andare a vendere il pesce in città. Quel che farà lo ignoro. Ma sono incline a pensare che imiterà il cammello – Mediterraneo, anche lui!-, che mangerà finché non sarà sazio, e che berrà finché non si sarà tolto la sete, così da poter vivere di ricordi nei giorni di digiuno”. Simenon viveva così?

«C’è un’intera mitologia, sul vitalismo di Simenon, sulla sua energia non dominabile. C’è un fondo di vero, ovviamente, ma molto di inventato. Simenon viveva la scrittura come uno sport estremo, questo sì. E quando non scriveva, applicava lo stesso metodo anche ad altre attività, com’è noto. Ma scriveva quasi sempre».

Negli anni ’30 il Mediterraneo era molto diverso. Poche persone, poche imbarcazioni. “Le persone che contano davvero sono quelle che vanno avanti e indietro come i tram”, raccontava Simenon.

«Doveva essere bello, eh? Niente grandi navi, niente moto d’acqua, niente bilocali vista mare. Ma per certi aspetti non era poi così diverso. Nel libro c’è un passo sui barconi che trasportano disgraziati da un paese all’altro, in cerca di lavoro. Riletto oggi, fa una certa impressione».

Lo stile di Simenon è asciutto talora ironico. Descrive un mondo che purtroppo non c’è più, e dove anche il “politicamente corretto” era ancora sconosciuto. Diceva le cose per quel che erano: per esempio, confrontava vari tipi di bordelli secondo le usanze in diversi paesi; con garbo e divertimento, raccontava cose oggi forse non raccontabili. Sarebbe ancora possibile farlo?

«Non lo rimpiangerei troppo, dopotutto era un mondo appena uscito da un abisso, che si stava rapidamente avvicinando a orrori anche più spaventevoli. Certo non era corretto, questo no – ma, visto quello che si sentiva strillare da palchi e balconi in quegli anni, non sono sicuro che sia un male. Però, ovviamente, il sistema di interdetti che ormai regolano quello che si può e non si può (soprattutto, che non si può) dire è uno dei grandi problemi che prima o poi dovremo affrontare sul serio. E non è un problema banale.»

Sei mai stato a Tunisi?

«Molto tempo fa. La scena non era già più quella raccontata da Simenon. Ma in qualche angolo della città, per un attimo, poteva ancora ricordarla».

Quale è il tuo rapporto con questo autore? Hai mai avuto voglia di ripercorrere le sue orme, i suoi viaggi?

«No, non è un autore con cui abbia quel tipo di rapporto. L’ho scoperto come quasi tutti, quando molti anni fa Adelphi ha pubblicato Le finestre di fronte. E siccome da sempre una delle cose di cui mi occupo, che mi attrae è la scrittura non di finzione, poco dopo ho letto per conto mio i réportages, proprio quelli che stiamo ripubblicando oggi. Che sono stati, per varie ragioni, una rivelazione».

Hai tradotto giganti come Patrick McGrath, Mordecai Richler, Joseph Conrad e molti altri grandi della letteratura. Come si traducono? È necessario entrare nella loro psicologia, capire il loro punto di vista sul mondo oltre che alle loro parole? Come ci si “prepara” alla traduzione di un autore?

«Non ne ho idea. Tradurre è un bellissimo mestiere, che spesso però viene teorizzato in modi francamente imbarazzanti. Potendo farlo, un traduttore dovrebbe scegliere solo libri che avrebbe voluto scrivere lui, di autori che conosce molto bene. Se si parte da quella sintonia, tutto il resto viene da solo. O quasi».

Scrivi anche di tennis: perché?

«Il tennis è da sempre una delle mie passioni, con i risvolti ossessivi familiari a qualsiasi praticante. A forza di leggerne mi sono reso conto che raccontarlo tutto sommato era difficile quanto giocarlo, se non di più. Era un problema, insomma, anche tecnico. E a un certo punto ho deciso che andava risolto. Non si dice spesso, ma per certi aspetti chi scrive si comporta come chi fa fisica: trova un problema, o se lo inventa, poi cerca l’equazione che lo risolva. O il libro. Non so se la mia equazione funziona ma, insomma, l’ho scritta».

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