Da qualche tempo, scappo a Tunisi appena posso. Sono stata diverse volte, da quest’estate in avanti. Mi ci reco senza grosse ansie, ma conscia della situazione. Molto informata, sempre, la mia professione lo impone: particolarmente interessante e per certi versi agghiacciante è stata la recente presentazione di Domenico Quirico del suo libro Il Grande Califfato, testo che ho divorato, e che purtroppo ho trovato molto realistico ed intelligente (è stato presentato per noi giornalisti giusto qualche giorno prima della mia ultima partenza).
La tesi dell’inviato de La Stampa è la ricostituzione del grande califfato del VII secolo: ovvero la riconquista da parte degli arabi di quel territorio, vasto, immenso, di cui erano padroni ai tempi di Maometto. A cominciare da Siria e Iraq, paesi ormai privi di frontiere, andando giù, verso occidente, ma non tanto il nostro Occidente, quanto il Magreb, il Nord Africa, dall’Egitto al Marocco (fino forse ad arrivare alla Spagna antica di Al Andalus). E la Tunisia è lì, nell’avanzata, nel mezzo, punto strategico, dopo la Libia, ormai paese polveriera, terra sconvolta, facile da depredare: perché loro, gli integralisti, vanno là, dove regna il caos, la povertà, il vuoto di potere.
Spesso mi sono detta speriamo che tenga, questa mia Tunisia, questo miracolo politico, questa democrazia nascente, questa primavera araba ancora in fiore. Una situazione da sempre appesa ad un filo: già quest’estate ho raccolto, con interviste, chiacchiere al caffè, confidenze tra amici, le preoccupazioni di molti. E se tornano gli islamisti, che cosa facciamo? Mi dicevano ad agosto. E poi il sollievo, dopo la vittoria di Essebsi, la prospettiva di restare per 5 anni più sereni, in pace, cercando di costruire un futuro migliore e riparare i danni.
Già i danni. Quegli islamisti arrivati al potere dopo la rivoluzione, dopo aver languito per decenni nelle prigioni, o in esilio all’estero, improvvisamente ripescati come un’alternativa al vecchio dittatore fuggito, e che in pochissimo tempo erano riusciti a fare al paese danni incalcolabili. Me lo spiega un’amica, una sera a cena, in un momento ancora tranquillo, i primi di marzo, in una casa antica di 300 anni, meravigliosa oasi di pace. “E’ stato un percorso semplice – mi dice – aggravato dalla creazione di un debito pubblico spaventoso e che vede due elementi di rilievo. Primo: dopo essere saliti al potere, gli islamisti hanno reclutato la loro gente, riempiendone i ministeri e gli uffici, gente spesso incapace e incolta, che oggi ancora prende lo stipendio e magari neanche si presenta al lavoro, personale inutile, che costa molto, ormai inamovibile. Secondo: l’apertura delle frontiere alle merci estere ha travolto il patrimonio tunisino, un tempo prezioso e protetto, e che ora è minacciato dalla concorrenza dei prodotti stranieri più scadenti e a buon mercato” (e mi fa l’esempio di una tovaglietta che, un tempo rigorosamente manufatto da artigiani del posto, con un certo costo e una indubbia qualità, oggi perde nel confronto impietoso con la merce in serie, spesso cinese, di basso valore e a basso costo). Un retaggio problematico serio, prodotto in poco tempo, ma che ci vorrà tanto per colmare. Eppure, mi diceva qualche sera fa, la mia amica tunisina: ci metteremo anni a riprenderci, ma ce la faremo, siamo un popolo coraggioso. E ora? Quale spirito c’è ora?
Rosita Ferrato
Sorry, the comment form is closed at this time.