Brindiam! Dalla nostra Storia: Barolo, Ratafià e non solo… – Rosita Ferrato, giornalista, scrittrice, fotografa
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Quando mi farete gustare il vostro famoso nuovo vino, marchesa?”
Presto, Maestà, molto presto” : questo il dialogo fra re Carlo Alberto e Giulia di Barolo. L’oggetto del desiderio? Il famoso Barolo, una innovazione per quei tempi, in quanto prima di allora il vino prodotto era il nebbiolo – dal nome del vitigno – vinificato giovane, amabile e zuccherino, che venne trasformato dalla marchesa Colbert in vino secco, trattando le uve “alla moda dei vini di Bordeaux”. L’intuizione fu affidarsi ad un celebre enologo, dal nome molto francese e chic: conte Louis Oudart di Reims, conosciuto e stimato anche da Cavour. Oudart suggerisce di sfruttare tramite l’invecchiamento la ricchezza dei polifenoli del vitigno per dar vita ad un vino con una solida struttura.

I Falletti, marchesi di Barolo, ovvero Giulia e consorte ne iniziano la produzione nei loro vigneti (possedevano infatti un castello nel paese appunto di Barolo, con un immenso patrimonio di tenute agricole. Non solo, ma a Palazzo Barolo, a Torino in via delle Orfane, esistono ancor oggi delle cantine storiche che hanno custodito delle botti di vino pregiato fino al 1919). È un successo!
Giulia diviene fornitrice ufficiale della Casa Reale e dona a Carlo Alberto il famoso vino con una fastosa processione che parte da via Nizza e termina a Palazzo Reale: una lunga fila di carri, per la precisione 325, uno per ogni giorno dell’anno, esclusi i 40 giorni della quaresima, e ogni carro ha la sua carrà piena di Barolo (le carrà erano botti da trasporto su carro, della capacità di circa 600 litri, ovvero 12 brente. Parentesi nella parentesi: avete presente quando in piemontese si dice di una quantità di liquido “una brenta” per indicare che è tanta? Ecco come mai).
Il Sovrano gradisce davvero l’omaggio, tanto che decide di diventare anch’egli in qualche modo produttore: compra la tenuta di Verduno e vi avvia una sua produzione personale. Si dice anche che Vittorio Emanuele II confermasse tale “conversione” per i vigneti della sua tenuta di caccia di Fontanafredda – acquistata per la Bela Rosin- ed è così che le mense dei nostri Reali accantonano i vini francesi e fanno del Barolo un vino da Re con un notevole riconoscimento anche all’estero, presso le corti europee in quanto definito anche vino “conservatico e atto all’esportazione”.

Ratafià
Da “Piemonte: la via dei sapori”, ed. Gribaudo 2001, gli autori Busso e Vischi segnalano: tra le ipotesi sull’origine di questo nome che in Piemonte indica un infuso secco di ciliege nere, non distillato, che ancor oggi, ma sopratutto ai tempi dei nostri personaggi, si beveva a fine pasto, c’è che ratafià sia l’evoluzione di espressioni latine- tipo “pax rata fiat” o “sic rata fiat”- usate a suggello di un patto chiuso con un brindisi finale tra le parti. Non so voi, ma io ce li vedo proprio: Cavour, Nigra, lo stesso Re…e forse anche le signore…
Ah…in piemontese “rata fià” si traduce anche con “gratta fiato”!

e, infine, apparecchiando…
Avete fatto caso che sulle tavole imbandite dei nostri reali messe ultimamente ancor più “a tiro” a Palazzo Reale, tra i bicchieri finissimi dei commensali ce ne uno di cristallo rosato? Ebbene, serviva per il vino del Reno che spesso decantava nei calici con un effetto estetico non desiderato…

Vignette di Alberto Calosso
di Rosita Ferrato e Maria Cristina Sidoni

[Pubblicato su NuovaSocietà il 22 aprile 2011]

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