La piccola Tripoli – Rosita Ferrato, giornalista, scrittrice, fotografa
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La piccola Tripoli

È il quartiere Ennasr di Tunisi, chiamato così perché ospita tantissimi rifugiati libici. E libici ricchi.
Le strade a saliscendi circondate da alti palazzi eleganti, tutti bianchi, con una coerenza invidiabile, sono percorse da automobili di lusso guidate da giovani arabi. Macchine esagerate con stereo a tutto volume per farsi notare: più appariscenti che eleganti, sottolineano che il guidatore è ricco. Pare che in Libia le auto di quel tipo costino poco, e comunque di gente danarosa si tratta.
I libici della Piccola Tripoli sono infatti rifugiati di lusso, in gran parte giovani, che affittano o comprano in questa zona a nord di Tunisi, dove i tunisini sono pochi. Quindi nei caffè e nei locali di cui questo quartiere è pieno zeppo non si sente parlare che con l’accento che li contraddistingue. E pare che le ragazze facciano a gara per accaparrarsene uno.
Ultimamente, in queste strade che vedono continuamente cambiare negozi, sorgere nuove attività, caffè, supermercati, è stato astutamente aperto un ristorante libico.
Il mio amico ed io ci siamo avventurati una sera. Un ambiente piacevole, con arredi e cuscini di artigianato locale, tutto nuovo, rosso e di gusto. Una lavagna con il menu e schermi al plasma per mostrare i piatti tipici della cucina di Tripoli. L’idea era invitante: dopo tanti giorni di cucina tunisina, un cambiamento era quel che ci voleva.
Ritroviamo una coppia di signori già incontrata in altri ristornati di Ennasr, libici, mezza età, molto raffinati. Lui più anonimo, lei una donna bellissima, snella, un viso che si ricorda incorniciato dal velo. Con lei ci sorridiamo, i nostri compagni si ignorano. Già le altre volte, mi aveva colpito non solo per la bellezza ma anche per la cupezza dei suoi occhi; ora è meno triste, non so cosa la turba, certo l’esilio…
Ci accomodiamo in una sala quasi vuota, il locale è piccolo e ancora evidentemente poco conosciuto. Chiesto il menu, ci guardiamo interrogativi: non capendo molto né io, né lui di quel che vediamo scritto, chiediamo lumi al cameriere. Costui, un uomo sulla trentina con l’aria annoiata, inizia a snocciolarci lentamente e inesorabilmente diversi piatti sconosciuti, senza inoltrarsi più di tanto sui contenuti e sugli ingredienti. Parla in arabo, quindi io non posso fare altro che annuire e osservare, tra il divertito e il preoccupato, la sua mimica e la faccia smarrita del mio compagno, che nelle avventure gastronomiche non è certo un cuor di leone; lievemente intimidito, non osa fermare la litania.
Finalmente, alla voce kamounia – piatto anche noto in Tunisia fatto di carne e salsa rossa – il viso del mio amico si illumina. “Aaaaah!” esclama contento, ritrovandosi finalmente in un terreno conosciuto. “Kamounia, questo lo conosco” sembra voler dire la sua espressione soddisfatta. È già più allegro, ma dura poco perché il serveur non si ferma, e ricomincia con parole nuove il suo elenco di piatti esotici, non più intenzionato a farsi interrompere. Decido allora di intervenire.
“Facciamoci portare qualcosa di tipicamente libico” suggerisco.
Confabulano in arabo e il cameriere si dirige verso la cucina con l’aria soddisfatta, anche Tarek è finalmente contento.
“Cosa ci porteranno?” domando curiosa, allettata dall’idea di conoscere nuovi sapori.
“Cous cous libico!” esclama lui con un sorrisone compiaciuto.
Non ci potevo credere. Ma come? È un mese che non faccio che mangiare cous cous. Mentre per lui, che odia sperimentare, quello è un ottimo compromesso. Mi rimprovero di non conoscere la loro complicatissima lingua e di non aver avuto più grinta nell’intercettare l’ordinazione.
Ci arriva il cous cous libico: identico al cous cous tunisino, solo molto ma molto più piccante, tanto che io, pur abituata alle spezie della zona, devo abbandonarlo a metà.
Delusa, mi ripropongo di ritornare un’altra sera, magari con qualcuno gastronomicamente un po’ più audace. E ora, a chi racconto di essere stata in un ristorante libico e dunque mi chiede: “Ah, ma allora avrai mangiato quello e quell’altro”, piatti tipici di quel paese, mi limito ad annuire e a dire: “Certo. Buonissimi!”.

Al ristorante

Al ristorante, se si è una coppia, il cameriere prenderà le ordinazioni dall’uomo. La donna deve limitarsi a stare zitta e semmai a protestare successivamente, quando le sarà arrivata l’ordinazione sbagliata.
Dal serveur, sempre maschio, è meno considerata, anzi spesso, se accompagnata da un uomo, neppure guardata. Pare che sia una questione di rispetto, ma ammetto essere un po’ frustrante.
Il discorso cambia però quando la stessa donna, finalmente libera, torna allo stesso ristorante o caffè senza Otello a fianco o con un’amica: i camerieri, fino alla volta prima trascuranti e distratti, diventeranno improvvisamente gentilissimi, elargendole grandi sorrisi.

Camerieri

Ho visto camerieri, gilet e pantaloni neri, camicia bianca, maniche arrotolate per il caldo, correre tra la folla come presi da sprint improvviso. Scene surreali, uno addirittura con ancora il vassoio pieno di tazzine vacillante sul palmo della mano. Corrono dietro a chi non paga: abbandonano improvvisamente il dehor, la postazione, e fendono la folla. Sono svegli, motivati dal fatto che l’ammanco verrà scalato dalla loro paga.
Succede abbastanza spesso. E capita che alcuni serveurs vengano bluffati, mentre altri riescano prontamente a riacciuffare i furfanti e a riportarli alla cassa.
Ps. Tra uomini il cameriere si chiama così: maal, amico.

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