Press Play, giornalismo e arte – Rosita Ferrato, giornalista, scrittrice, fotografa
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Press Play, giornalismo e arte

14 marzo 2012 – Per un giornalista assistere ad una mostra dedicata all’informazione è impressionante, lo riempie di quesiti, lo costringe a pensare all’importanza del suo lavoro. Per tutti gli altri visitatori vince la fascinazione, ma le domande sono le stesse. E’ ciò che si respira a “Press Play”, una mostra che esplora il mondo dell’informazione attraverso l’arte, allestimento suggestivo e imponente a cura di Irene Calderoni, presso la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo a Torino, fino al 6 maggio 2012.

Press/Play, il gioco di parole richiama questo tema: la notizia declinata, esplorata, vista da diverse angolazioni, sezionata grazie al lavoro di artisti esperti nell’immagine. Le diverse realtà, come la notizia ci viene presentata, il potere della stampa. «Abbiamo voluto aprire il programma espositivo del 2012 con Press Play, dedicata al rapporto tra arte contemporanea e informazione – racconta Patrizia Sandretto Re Rebaudengo nel numero monotematico dedicato – la mostra affronta questioni di stringente attualità, sia per i temi oggetto delle singole opere, sia per lo sguardo riflessivo rivolto a una società sempre più dominata dalle logiche dei mass media. Siamo soggetti a un flusso informativo costante, fatto di immagini e parole che ci arrivano in tempo reale dai giornali, dalla televisione, da internet e dai cellulari; in questo contesto di sovraccarico informativo, è sempre più difficile orientarsi, capire, decidere». «Ciò che l’arte può offrire – conclude – sono degli strumenti di interpretazione e una maggiore consapevolezza dei codici tramite i quali la realtà viene rappresentata in forma di immagine. L’arte ci insegna a guardare e leggere meglio il nostro tempo».

Nella prima sala è subito affrontato il tema della rappresentazione del dolore: l’emotività del visitatore è subissata dalle 150 copertine dell’opera “9/12 Front Page” di Hans Peter Feldmann: prime pagine di quotidiani di tutto il mondo pubblicati il 12 settembre 2001. Il potere delle immagini, lo spazio dedicato alla notizia, la titolazione, l’accostamento della tragedia alla pubblicità (in alcuni casi), una foto meravigliosa e apocalittica che prende una pagina intera, come nel caso del Times, dove le Torri Gemelle che crollano, ricordano, tanto sono atrocemente poetiche, un quadro di Turner. Alcuni titoli: “La nouvelle guerre” Le Figaro, “Day that changed the world” The Sun, “20 mil mortos” 24 Horas, “Apocalypse Now” di un giornale arabo.

Si procede in una seconda sala, ancora più grande della prima, riempita da schermi televisivi, immagini che scorrono e fotografie: il tutto per raccontare la figura dell’anchorman e il senso della soggettività della notizia, la realtà che diventa reality, la potenza dei media nella vita di oggi. Nell’allestimento di Alessandro Gagliardo “Palinstesto”, la televisione diventa il campo d’indagine dell’Italia moderna, dove lo spazio pubblico e l’esperienza sono ormai spettacolo. La vita come un reality show: dal parto alla morte in diretta, mentre la comunità di persone diventa la comunità televisiva, e la tv soggetto di narrazione. Un esempio che ricordiamo tutti: i funerali di Vianello nello speciale del Tg5, con mega schermo e dolore in diretta.

Nel corridoio degli spazi della Fondazione altri schermi, che raccontano diverse realtà in diversi modi: i meccanismi della visione rappresentati da Alessandro Quaranta con “The handy holes watchers parade”. L’artista, al Cairo nel 2011, filma una sequenza priva di eventi, dove le persone, con i loro cellulari, riprendono chi riprende. “Il video di Quaranta – spiegano gli organizzatori – enfatizza una dimensione peculiare al nostro tempo, ovvero la trasformazione degli agenti in spettatori, e della sfera pubblica in un frammentato universo di relazioni virtuali: lo sguardo delle persone non è concentrato in realtà sull’evento, ma sulla sua riproduzione digitale, non è diretto su piazza Tahrir e sui manifestanti uniti, ma sul piccolo schermo del cellulare di ognuno, potente spazio simbolico di una mozione di modernità in divenire”. E ancora, il crollo dell’Argentina del 2001 dove la potenza dell’evento viene misurata da quanti minuti viene trasmessa in primetime (Sebastian Diaz Morales “Lucharemos hasta anular la ley”), le sequenze di Steve Mc Queen in Unexploded che dipingono la distruzione della guerra a Basra, in Iraq, e le sequenze impressionanti di “Father” di Doron Solomons, reporter della tv israeliana, dove il tema sono le paure dei genitori israeliani e palestinesi sui pericoli della guerra a cui sono esposti i loro figli.

Dell’ultima sala non vi parlerò. È uno spazio, forte, forse evitabile. Rimane però, quella sì, da apprezzare l’opera di Pierre Huyghe “The Third Memory”, che mostra come la realtà e la nostra memoria siano soggetti a manipolazione. L’artista riparte da un fatto di cronaca, una rapina in banca del 1972, diventata un sequestro trasmesso in una lunga diretta tv. Un episodio che divenne un film, “Dog day afternoon” ovvero “Quel pomeriggio di un giorno da cani” di Sidney Lumet, 1975. Huyghe ci porta in un viaggio tra passato e presente dove la cronaca diventa finzione, e poi torna realtà e torna finzione. Un esempio tutto americano di come la notizia superi la realtà.

Rosita Ferrato

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