Chiamatemi Carlà – Rosita Ferrato, giornalista, scrittrice, fotografa
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Chiamatemi Carlà

“Siete bigotte, bigotte”. Dal tavolo di un bar, sto per alzarmi e andarmene: un piccolo scandalo in piazza Vittorio…
Arriva che sembra uscita da una pagina di moda. Ci troviamo all’Elena come tanti anni prima, solo che lei non è più una ragazzina tranquilla, ma la copia firmata di Kate Moss: ha lo stesso street style, ma non la stesa disinvoltura; l’effetto è di un doppione venuto male.
Non so se mi è mai piaciuta, ma è una bella donna, capelli biondi finto arruffati, alta, snella. E’ trafelata, è venti minuti in ritardo. Eppure conosce la strada: è torinese quanto me, però vive a Parigi da tanti anni e si dà arie da francese svampita.

Da un po’ di tempo è spesso in patria, chissà perchè. Mi saluta con due baci sulle guance, si accomoda e si agita scusandosi “oh, pardon pardon”; ma non è vero niente, penso acida. Credo mi abbia sempre considerata una provinciale.
Mentre beve il suo caffè italiano, si guarda intorno e comincia un confronto impietoso tra le mie concittadine (e me, ça va sans dire) e le cugine d’oltralpe: “Siete così castigate qua. Le francesi scoprono un pezzo qua e un pezzo là, lasciano intravedere, ma non sono mai volgari, sono solo più coquettes”.
Poi è il turno della lingua: “Le parigine hanno un modo di giocare con le parole che qui se lo sognano. La malizia! il doppio senso sottile, la battutina, qua è tutto un tabù”. Ha un modo di esprimersi innaturale, come il suo colore di capelli: arrota una erre che mi sa tanto di fasullo.
Della femminilità: “Le donne italiane quando diventano madri si appantofolano, diventano delle maman, delle regine di sciatteria, mentre da noi in Francia una donna è sempre anche femmina, si cura, vuole piacere agli uomini”.
Traffica per qualche minuto con il suo zainetto firmato, ne estrae un borsellino a forma di coccodrillo. Apre la zip sotto la pancia del piccolo peluche color rosso fuoco e mi dice: “Guarda, me lo ha regalato mia madre quando sono diventata donna, dentro c’è una giarrettiera, ogni anno me ne regala una diversa. Qui certe cose non le puoi neanche raccontare”.
C’è più savoir faire, femminilità, garbo, pepe! La torinese pentita alza il tono della voce sull’ultima parola “E voi che pepe avete qui?” strilla. Poi tace, ma per poco.
Inizio a essere stufa di tutto questo sfoggio di femminilità presunta, di questo screditare la mia città e i suoi modi: io ci vivo e posso, ma guai se una forestiera si permette. Guardo l’orologio, stizzita, le faccio capire che sono sul punto di andarmene, ma lei ormai quasi parla da sola, come un meccanismo inceppato.
Siete bigotte, bigotte, ripete. Ma qual’è il suo problema? Inizio a chiedermi perchè è tornata: anche solo un fine settimana sembra irritarla incredibilmente.
In difesa della piemontesità faccio per alzarmi – lasciandole il conto da pagare – quando ecco che mi afferra per una manica e crolla. “Pardon, mi devi perdonare”. Lo sguardo contrito, è il momento della confessione.
“La verità è che mi manca talmente questa città: la sua sensualità nascosta, il suo mistero di provincia, il suo erotismo così poco plateale, il suo mix culturale”. E qui si ferma di colpo e mi osserva.
Esita, ha voglia di condividere un segreto, il motivo del suo cattivo umore, suppongo. E infatti, cherchez l’homme, ecco la rivelazione: “Poi, poi, mi sono innamorata. Di un ragazzo. Di colore. Sai, è tanto caro e gentile. Lavora qui dietro, ad un banco di frutta di Porta Palazzo. Sono molto felice, ma…”
Ma?
“Ma sono così in imbarazzo: e adesso, ai miei, chi lo dice?”.

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