Prigioniera a casa tua – Rosita Ferrato, giornalista, scrittrice, fotografa
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Prigioniera a casa tua

Leggere il libro di Susan Dabbous “Come vuoi morire?” (Castelvecchi editore) prima di incontrarla non sarebbe stato lo stesso. Le pagine sono quelle di una donna che scrive il suo diario, di undici giorni speciali, quelli di una prigionia. Susan è una giornalista di 31 anni, ma il suo modo di fare è quello di una donna “grande”, sicura di sé, bella, decisa. Dalle pagine emerge, tuttavia, anche la sua parte più intima, più fragile, più umana.

Pagine che non si smetterebbe mai di leggere di un libro che si fa fatica a posare, pagine che, nella loro semplicità di narrazione e di scrittura, tengono il lettore con il fiato sospeso, anche se per fortuna se ne conosce già la fine, una fine lieta, una liberazione. Susan, italo-siriana, collaboratrice di Avvenire e di altre testate nostrane, viene rapita in Siria nel 2013, assieme ad altri tre giornalisti (tra cui Amedeo Ricucci, collega della Rai), in quel Paese che è la sua patria ritrovata, tra gente che è anche la sua gente e a cui, pur non condividendo le idee dei suoi rapitori, in qualche modo sente di appartenere. «Il 3 aprile dell’anno scorso, in una città vicino al confine turco – racconta Susan- davanti a una chiesa sconsacrata e profanata, siamo stati arrestati da un gruppo di shebab, dei miliziani. La scusa era semplicemente quella di controllare le immagini che avevamo girato. Io, però, ho sentito subito una vocina che mi diceva: attenzione, siete stati rapiti, e non avevo dubbi su questo, perché conoscevo quel gruppo».

«Sfortunatamente, in quei giorni di sequestro, abbiamo involontariamente assistito alla genesi di quello che poi è diventato lo Stato Islamico dell’Iraq, detto anche ISIS, un gruppo estremamente violento, tanto che addirittura Al-Qaeda ha finito per ripudiarlo. La mia storia è stata raccontata in più modi, anche dal punto di vista giornalistico, perché quando vengono rapiti dei reporter c’è sempre attenzione. L’occasione del libro è stata anche quella di raccontare altri aspetti, che vanno al di là della cronaca, la quale di solito si focalizza molto sulle dinamiche del rapimento, se è stato pagato un riscatto, cose così. Per me, quella che racconto nel libro è stata invece un’esperienza umana molto forte, molto profonda anche sul piano psicologico. Nel libro descrivo anche le mie sensazioni di paura: del resto non mi sentivo particolarmente coraggiosa a entrare in Siria, per il semplice fatto che, non essendo una reporter di guerra, mi trovavo là perché da semplice giornalista volevo raccontare cosa stava succedendo nel mio Paese d’origine, un luogo a cui tengo tantissimo. Non pensavo al pericolo oggettivo; non ero un’incosciente, per me entrare in Siria era un fatto abbastanza naturale».

Susan trascorre undici giorni di prigionia, giorni di convivenza intensa, di cui quattro assieme alla moglie di uno shebab, un miliziano. Il loro diventa un rapporto umano interessante e molto complesso. «Sono stata colta da una sindrome di Stoccolma fulminante. Ho deciso, fin dall’inizio, di giocare la mia carta siriana e mussulmana, per entrare nel loro contesto sociale. Innanzitutto perché volevo essere assieme a una donna. La mia vera preoccupazione era l’incolumità fisica e, conoscendo la loro filosofia islamista “pura”, non temevo abusi sessuali. Però sapevo anche che il gesto di follia può capitare a chiunque, bastava cominciasse uno per essere seguito dagli altri, ed erano cinquanta…» «Ho iniziato subito una sorta di conversione: ero mussulmana, ma cresciuta in un contesto totalmente laico e anche cattolico; mi hanno chiesto se mia madre, che è cattolica, si fosse convertita all’Islam, ma ho risposto che mio padre non le ha mai chiesto di convertirsi. Che è la verità. Per cui ho cercato subito di entrare nel loro contesto sociale, anche perché mi preparavo a una prigionia che non sapevo quanto sarebbe durata. Una prigionia dove incontro Miriam, una donna sorprendente: è una ragazza di 22 anni, tunisina, appena sposata. Mi mostra le foto del suo matrimonio, una festa alla araba, e capisco che uno sposalizio di jiiadisti non è diverso da uno tradizionale. L’unica cosa che distingueva Miriam e il marito era che la loro luna di miele si sarebbe svolta in un paese in guerra. Ed è questo che, alla fine, rende questo mio diario un inedito, perché ho avuto la possibilità di sbirciare l’intimità domestica di due estremisti islamici. Di un integralismo assolutamente diverso da quello della narrativa di Bin Laden, di Al-Qaeda: posso testimoniare che è profondamente cambiato, non è più quello».

«Il nuovo estremismo è qualcosa di completamente diverso, che un collega ha definito “degli jiadisti della domenica”. Sono quelli che partono con un volo, arrivano comodamente a destinazione, poi tutto il resto è un trekking di tre ore per attraversare il confine dalla Turchia alla Siria, in un paesaggio anche particolarmente bello. La sposa viene inserita in una casa: non è una vita comoda, ma neanche scomoda come potrebbe essere quella dell’Afghanistan, e si inizia la vita coniugale. Ed è quello a cui ho assistito nella mia prigionia; vi era anche un progetto, perché Miriam voleva un bambino. Quindi, nel primo momento in cui sono entrata in casa sua, l’ho vista intenta a seguire un video sulla gestazione: è così che si stava preparando alla maternità perché, probabilmente, avrebbe dovuto partorire in casa».

«Quello che ho visto è molto diverso dall’Islam tradizionale che conoscevo attraverso i mass media o le agenzie, e l’ho scoperto con un punto di vista diverso. Per me, questo insieme di oscurantismo e di superstizione erano idee assolutamente aliene. Mi sono sentita dire cose che per me non avevano alcuna radice, né religiosa né culturale, come per esempio che le donne nell’Islam non possono vedersi nude. Non è vero: io andavo all’hammam con le mie amiche e cugine, quando abitavo a Damasco, e non c’è mai stato alcun divieto. Mi sono sentita dire che non si può mangiare con la mano sinistra, e io venivo ripresa ogni volta che lo facevo. E se Miriam lo faceva in modo molto gentile, io sentivo comunque questa pressione su di me e il fatto di essere “sbagliata”.

Sostanzialmente, il terrore che avevo i primi giorni era questo: devo sopravvivere, devo farmi accettare, e perché questo avvenga devo permettere loro di “riformattarmi”; ai loro occhi ero un ibrido inammissibile, mi detestavano per quello che ero, perché contrariamente agli altri, cristiani, infedeli, rispettati nella loro diversità, io ero nata giusta ma cresciuta sbagliata. Dovevo essere ricorretta, e questo accanimento l’ho subito da parte dal leader del gruppo, molto presente nel libro.

Un uomo che chiamavano Sheik, che aveva con me l’atteggiamento del bastone e della carota: voleva redimermi, ma allo stesso tempo punirmi, ed è per questo che, solo con me, scatenava una violenza verbale che non usava con gli altri, tanto che alla fine sono stata persino minacciata di morte».

«Ho grande fiducia nella conclusione della guerra, che avverrà prima o poi, perché tutte le guerre finiscono. Credo che questa cultura della vita, tipica dei paesi mediorientali, sia presente anche in Siria, dove la vita tornerà. Difficile capire, in una cultura del martirio, cosa avverrà quando gli estremisti islamici avranno finito di occupare la Siria: forse non sarà più uno Stato unito come lo conosciamo, con i confini attuali; probabilmente sarà un Paese spaccato con una regione curda, una probabilmente alawita, il regime potrebbe reggere o cadere, è tutto veramente difficile prevedere. Tornerò là, però, perché là ho la famiglia, perché vorrò vedere cosa sarà rimasto dopo questa guerra terribile e sanguinosa».

Rosita Ferrato

Fonte: Babelmed

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