QUI IN TUNISIA SOFFRO QUANDO… – Rosita Ferrato, giornalista, scrittrice, fotografa
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QUI IN TUNISIA SOFFRO QUANDO…

Quando vedo le buste di plastica che svolazzano ovunque: nelle belle campagne, nelle strade della medina, nel souk ormai vuoto, la sera, sui marciapiedi, nei mercati dove per fortuna sono ormai vendute a parte da abusivi nel caso si abbia dimenticato la koffa, la classica sporta in paglia ecologica (anche nei supermercati si è passati a soluzioni più green e non vengono distribuite a piene mani come in passato).

Quando vedo i marciapiedi sommersi dagli ambulanti o soffocati dall’invadenza dei dehors dei caffè, tanto che non si riesce neppure più a camminare.

Quando vedo tanti gatti randagi che si arrangiano come possono. “I tunisini amano i gatti – mi raccontano – ma dalle strade li prendono troppo piccoli, e le mamme gatte rimangono senza piccoli e vagano, vagano, disperate in cerca dei loro cuccioli”.

Quando vedo nelle strade tanta povertà. A volte si aggirano persone dai problemi psichici, come un tizio che ogni sera abbraccia una buca delle lettere gialla su avenue Bourguiba: le parla, la suona come fosse un tamburo, è come se fosse la sua compagnia. Altri girano per le strade ubriachi, altri sono mendicanti, hanno i loro posti assegnati.

C’è una signora, a volte scherzo dicendo che potrei essere io da vecchia, ha la pelle chiara, sembra una sorta di Miss Marple trasandata. Ogni sera la troviamo a fare le parole crociate seduta sui gradini di un negozio del centro. Non alza mai gli occhi, sta lì. Sui gradini della cattedrale invece “vive” un ragazzo sporco, magro, dorme lì, avvolto in inverno in un sacco a pelo. “Se la famiglia non li fa ricoverare – mi spiegano – vivono così, in strada”. Randagi anche loro, come i gatti.

Quando un bambino che vende gelsomini ti si avvicina: bello, biondo, sguardo chiaro. Propone i suoi fiori, poi improvvisamente ti mette sotto gli occhi il pollice, con una piccola deformazione: ha due unghie. La visione mi provoca un piccolo moto di disgusto, faccio involontariamente un salto indietro, per lui sembra essere un gioco, ma tu non te lo scordi. Gli avranno detto di fare così.

Quando vedo un bimbetto sul tetto della bottega della medina di sera, salito per recuperare il pallone. Cammina, spavaldo, io non riesco neanche a guardare, mentre gli amici ridono e lo incoraggiano. Scenderà tranquillamente, qui i ragazzini sono svegli, io invece a queste scene non riesco ad abituarmi.

Quando su un tratto di Rue de France dove sei passato qualche minuto prima, la gente si raccoglie attorno a spazzini che stanno ramazzando macerie macchiate di sangue: “è caduto un pezzo di cornicione da quel balcone. Ha ferito una donna alla testa”. Case pericolanti, pericoli in agguato.

Quando Tunisair non è mai puntuale. Un’ora, due, quattro, sette ore. Dai passeggeri snervati in attesa sento spesso citare il nome di Ben Alì: Ah, quando c’era lui! Sì che si viaggiava bene, sì che tutto funzionava, c’era ordine, bellezza, disciplina, sì che si stava meglio. Si stava meglio quando si stava peggio. Quando c’era lui. Non lo so, quando c’era lui io lì non c’ero. Sempre in aeroporto, una ragazza mi dice: “Si sta meglio ora, si ha accesso a tanto, all’informazione, ai media, si sta meglio ora, decisamente. Anche se ci sono scioperi di categoria continui: scioperano tutti, ma ci vuole pazienza”. Infatti c’è chi dice addirittura che ci sarà una seconda rivoluzione: è vero che ora c’è libertà, ma non c’è lavoro, i prezzi delle derrate alimentari e della vita sono alle stelle, la povertà è quella di prima, e in più non ci sono regole e ogni giorno c’è qualche protesta. Prima o dopo Ben Alì: la discussione non è finita.

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