Si parla tanto delle donne arabe. Del velo, della sottomissione, …forse tutto vero, ma…. avete mai passato una serata assieme a loro? Io sì, e ve la vado a raccontare.
Tunisi, buona borghesia, febbraio 2016. La mia cara amica Amina ed io ci incontriamo per raccontarci le ultime novità: lei, dottoranda, donna bella ed istruita, sposata, due figlie, una casa nel quartiere elegante della capitale, e due incantevoli occhi azzurri; ed io, la giornalista che arriva da lontano. Grande amicizia, grande feeling. Mi chiede se ho voglia di accompagnarla ad una lezione di canto: è un appuntamento che lei si concede due volte alla settimana per divertirsi ed allentare la tensione dei suoi giorni lavorativi. La seguo volentieri incuriosita, e non so francamente cosa aspettarmi.
Amina passa prima da casa per cambiarsi: dai jeans del pomeriggio, arriva con delle spettacolari scarpe italiane, tacco altissimo, mini vestito, rossetto, profumo. Amina è uno schianto.
Arriviamo alla casa della sua maestra, Chacha, e prima di entrare faccio il gesto di spegnere il cellulare: Mais non, mon amie, tu verra, ma no, cara amica, vedrai, non è necessario. Entro e mi trovo davanti un gruppo di giovani donne bellissime, tutte eleganti e sorridenti. Mi accolgono come una di loro. Sono sedute su dei divani posti attorno ad un tavolo, come usa qui. La maestra di canto, una donna bruna sulla cinquantina, ha un microfono in mano; un signore di mezza età, sorridente, suona uno strumento, una sorta di pianola, da cui escono dei ritmi arabeggianti. C’è un sacco di rumore, ma che rumore, una musica meravigliosa a tutto volume, e le signore lo seguono e cantano. Prima tutte insieme: Chacha dà loro un foglio di testo in arabo per le parole della canzone. Poi, a turno, sono chiamate a cantare da sole, una per una, ognuna una melodia diversa. Le intonazioni di ogni donna sono diverse, ed ognuna meravigliosa a suo modo. Arabeschi, melodie, fioriture: la musica araba, personalmente, non mi stanca mai.
Una di loro mi invita a danzare: la seguo e ne imito i movimenti. Sinuosi, sensuali evocativi, senza essere volgari. Le spalle si muovono in modo coquette e malizioso, si muovono i fianchi, e io seguo, seguo, e mi diverto: mi sento troppo magra, ma per niente impacciata, come una di loro.
Al centro del tavolo basso ci sono acqua, thè, dolcini e salatini, che a turno una di loro offre alle altre, e guai a rifiutare: é per farti ingrassare, cara, scherza la mia amica. Si canta, si battono le mani, si sente il suono del youyou, la gioia espressa come le donne berbere. Per me, amante di questo affascinante mondo, è il paradiso, è pura poesia.
La stanza si surriscalda, ci muoviamo, cantiamo, e anche la meno bella fra loro, con quei movimenti sinuosi, diventa subito affascinante, provocante, bellissima.
Si ritrovano qui due volte a settimana, sono un gruppo di donne, una decina, tutte sui trenta quarant’anni, ma ci sono anche gruppi di signore anziane, mi raccontano, tutte ben vestite e truccate, agghindate per godersi la serata.
Le mie nuove amiche mi accolgono come una di loro e sono elegantissime: io ho jeans e maglione, a confronto mi sento sciatta. Tutte vestite soprattutto di nero, con tacchi spaventosamente alti e scarpe bellissime. Pizzi, abiti fascianti, pantaloni in pelle e montoni neri. Schiene che si intravedono curve, orecchini dorati, minigonne, è il tripudio della sensualità. Mi si dirà, ma sono tra donne, e allora? Noi occidentali un’eleganza così ce la sogniamo: siamo spesso poco curate, di corsa, spente. Le mani e le dita girano nell’aria, le donne sono complici, lontani da sguardi maschili (tranne che per il suonatore di pianola, che guarda beato). Ci si diverte fra donne, si sta fra donne senza rivalità; gli sguardi sono benevoli, gli abbracci sinceri. Ballo per due ore di fila: con il mio golfino di lana sono tutta sudata, ma non mi importa, sono felice!
Uno spazio di sole donne. Rilassante al massimo, giocoso, senza sforzo. I gesti sono invitanti: una spalla che si muove, un occhiolino, un bacio lanciato: questi, signori miei, sono femmine con una femminilità, e scusate il gioco di parole, che da noi si sono estinte da tempo immemorabile.
Vi racconterò un’altra cosa: qualche tempo fa sono stata ad un seminario dell’ordine dei giornalisti e degli avvocati a Milano, sulla Sharia. Nella capitale della moda, parterre di giornaliste e avvocatesse. Tutte più o meno carine, alcune molto, altre per nulla, ma insomma un bel campionario di femmine. Improvvisamente è apparsa una ragazza decisamente araba. Tutta in nero, con un montone corto. Coperta dalla testa ai piedi, velata, con un foulard nero. Ha attraversato la sala, mi ha stregata, e credo sia stata notata da tutti. Il vestito rivelava le curve più perfette e lasciava intravedere un corpo meraviglioso, senza mostrare un centimetro di pelle. L’acconciatura del velo, tenuto insieme con maestria da spilli con la capocchia nera, era di un’eleganza e di una raffinatezza rare. Una dea.
Mi sono guardata intorno: golf a sacco, pantaloni sgualciti, perfino la più bella tra noi aveva l’aria sciatta. So che in Marocco le donne si prendono molto tempo per la propria bellezza, so che in altri paesi arabi uscire senza tacco e non tappate, anche negli uffici, è un delitto. E allora, da che pare stare?
Vi racconto ancora questa: mi sono recata recentemente da un’altra amica a Menzel Temim, un paese a un’ora e mezza da Tunisi, per un pranzo con la sua famiglia. Mi aspettavo una riunione “mista” di persone, una tavolata chiassosa e dai tempi lunghi, come da noi nel meridione.
La mia amica e sua sorella sono venute a prendermi al taxi collettivo e mi hanno portata a fare un giro per il paese, dicendomi di stare tranquilla: tu est de la famille maintenant, ora sei una persona di famiglia. Abbiamo incrociato suo padre, per la strada in bicicletta, mi ha stretto cordialmente la mano e poi è sparito. Sparito. Come tutti i maschi della famiglia, che durante la giornata sono diventati una presenza evocativa, puri fantasmi.
La sua famiglia con cui ho pranzato è stata di sole femmine (ad eccezione di un piccolo di qualche mese e di un diavoletto beato fra le donne, e simpaticissimo, di 6 o 7 anni). Velate, chi sì e chi no, a loro gradimento, ci siamo messe attorno ad un tavolo. Ma prima i convenevoli: mi hanno tutti dato il benvenuto con due o tre baci sulle guance, e mi hanno accolta come una di loro. Chiusa la porta della stanza, per non disperdere il calore generato da una stufetta, ci siamo preparate al pranzo luculliano. Divani dalle stoffe sgargianti (personalmente adoro l’oro), ci siamo sedute sui materassi e attorno al tavolo basso dove c’era da mangiare. Un tripudio, una benedizione, cibo preparato con cura e amore: cous cous con harissa, il byrek con l’uovo che cola, e poi altre mille specialità, per festeggiare la nascita del profeta (era il 3 gennaio). Tutte insieme, senza mai l’intrusione di un uomo. Neanche a fare capolino: eravamo noi. Punto.
C’era anche una neo mamma, una giovanissima donna dai begli occhi azzurri, con il nuovo venuto, Youssuf, uno dei due maschi presenti. E qui, un altro miracolo: la ragazza affidava il suo pupo a tutte noi, e perfino a me, che di figli non ho mai sentito l’esigenza, che quasi quasi mi ha fatto venire la voglia. L’adulto comandava: che fosse la nonna, la zia, o una delle tante cugine o la giornalista occidentale, ognuna aveva la possibilità e la voglia di prendere in braccio il bambino, che senza mai un lamento o un capriccio, girava felice fra le braccia dell’una o dell’altra. E la mamma poteva mangiare, riposarsi, prendere fiato, guardarsi la tele, sapendo che il figlio era lì, e in ottime mani.
Una scena analoga l’ho vissuta in Marocco, e ho pensato la stessa cosa: non è meglio così per le donne? Non è più rilassante questa divisione dei ruoli, non è meglio per tutti e più sana?
Pensiamoci…
Rosita Ferrato
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