Olimpia Rossi Savio fu colei che fra le altre cose consigliò a Carlo Alberto di parlare una volta per tutte in italiano. La signora conosceva infatti molto bene la nostra lingua, in un periodo in cui a corte si comunicava col piemontese e francese. Avendo sposato ventunenne il barone Andrea Savio, un avvocato conoscente di Cavour, partecipava alla vita di corte e conobbe personalmente il sovrano che meravigliatosi del suo italiano fluente si sentì rispondere: “Maestà, il francese è il linguaggio della corte, parli anche lei italiano, cosicchè tutti “vi piglieranno amore”.
La dama non solo aveva ardire nella parlantina, ma fu anche poetessa. Nella sua casa di via Po, amava scrivere versi patriottici, che verranno spesso letti in pubblico anche dal giovane Costantino Nigra, il futuro ambasciatore in Francia che tanto contribuì alla concretizzazione delle strategie cavouriane. Lei stessa sarà invitata a salire sul palco a parlare e lo farà con trasporto, a favore di Tommaseo e Manin, vittime della repressione austriaca.
Dopo la disfatta della prima guerra d’indipendenza, la giovane baronessina fonda il Salotto Mille Rose, nella sua residenza estiva, “un nido in una gran cesta di fiori” frequentato da politici, letterati e artisti, ma anche da Maria Adelaide, la moglie austriaca nonché cugina di Vittorio Emanuele II e da varie dame, come la filantropa Giulia Falletti di Barolo e Tereza Bartolozzi, signorina “tutta riccioli e spiritelli” che Silvio Pellico avrebbe tanto voluto sposare . La nostra impersonò una delle più importanti salonnières del periodo. Nel suo salotto le idee si aprono al confronto e si scambiano le informazioni ma anche si forgiano anche le giovani coscienze. Olimpia scrive: “Nelle riunioni di casa nostra… i miei figli sentirono discusse le più gravi questioni, udendo i più assennati commenti sulle notizie estere ed interne… Un simile ambiente certo era favorevole allo sviluppo dei miei figlioli, avidi come sempre a quell’età di cose nuove, imparando senza avvedersene un mondo di cose utili, necessarie, piacevoli, che li addestravano alla ginnastica del pensiero, a misurar prontamente le idee più opposte”.
Di Olimpia e dei suoi figli ci parlerà molto Garibaldi: l’eroe non nasconde la commozione al ricordo che doveva la vita al secondogenito di Olimpia durante un’ imboscata nell’ottobre del 1860. Peccato che il giovane, facendosi scudo al generale, morì, aumentando così la prostrazione di questa madre che già aveva perso il figlio più grande, sempre nella seconda guerra d’Indipendenza: le rimaneva solo il più piccolo, Federico, che pur infiammato dai principi patriottici respirati in famiglia, rinunciò a partire per la terza guerra d’Indipendenza proprio per non lasciare sola la madre che già tanto aveva sofferto. Scriveranno insieme delle gesta dei due ragazzi caduti ricordando come in una lettera al Re Vittorio Emanuele nel 1855, solo una manciata di anni prima, Olimpia aveva scritto:
“Sono nata da una famiglia che senza interruzione è stata per più di cento anni attaccata alla Vostra e il mio cuore non ha mai smentito l’attaccamento dei miei avi. La prova è nei miei figli, che Dio mi ha dato e che sono la gioia della mia vita. Ve li ho consacrati e moriranno se ce ne sarà bisogno, non soltanto per difendere la loro persona, ma la grandezza e la dignità del Vostro trono.”
Altro che mamme italiane iperprotettive e figlioli “bamboccioni”…
Vignette di Alberto Calosso
di Rosita Ferrato e Maria Cristina Sidoni
[Pubblicato su NuovaSocietà il 5 maggio 2011]
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